La storia dell’indagine dell’Antitrust sulla presunta combine fra Mediaset e Sky per tenere bassi i costi dei diritti tv del calcio è un sintomo allarmante della debolezza del sistema tv del nostro paese. Alcuni giorni fa l’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato ha aperto un’istruttoria nei confronti delle società Sky Italia, Rti-Mediaset, Infront Italy (si tratta della potente company internazionale che si occupa delle mediazioni di affari fra le società sportive e le tv di tutto il mondo) e della Lega nazionale professionisti di Serie A sull’assegnazione dei diritti televisivi per il Campionato di calcio nel triennio 2015-2018. Il sospetto dal quale muove l’indagine è che ci siano stati “accordi spartitori” fra Sky e Mediaset. Per accertare queste ipotesi, i funzionari dell’Antitrust e la Guardia di Finanza hanno eseguito una serie di ispezioni nelle sedi delle società. La storia, per come è stata ricostruita nella fase istruttoria di questa indagine, è abbastanza inquietante non tanto o non solo per i i sospetti rispetto alle alle società coinvolte ma per il livello di nervosismo sulla tenuta del mercato televisivo italiano dimostrato dai protagonisti della vicenda. Al termine della procedura per l’assegnazione dei diritti televisivi, Sky avrebbe dovuto trasmettere le partite del Campionato di Serie A sulle piattaforme satellitare e digitale terrestre contenute nei “Pacchetti A e B”, mentre a Mediaset, che aveva presentato l’offerta più alta solo per il “Pacchetto D” (si tratta di una divisione convenzionale stabilita dalla federazione sulla base delle notorietà delle singole squadre, del tipo di contenuti accessibili e del tipo di piattaforma) sarebbero spettate le restanti partite su tutte le piattaforme. Successivamente alla gara, tuttavia, l’assetto definitivo delle assegnazioni è risultato diverso per i singoli “pacchetti” in cui erano stati inseriti i diritti televisivi: il pacchetto satellitare (A) è stato assegnato a Sky, il pacchetto digitale terreste (B) è stato assegnato a RTI, mentre il pacchetto D è stato assegnato a RTI e poi da questa ceduto a Sky. Una storia complicata sulla quale non sarà facile fare luce. Secondo il linguaggio tecnico dell’istruttoria dell’Antitrust, c’è “la possibile sussistenza di un’intesa restrittiva della concorrenza, in violazione dell’art. 101, comma 1, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, volta eventualmente a condizionare e alterare gli esiti della procedura di assegnazione e a escludere i potenziali nuovi entranti, in modo da pregiudicare il commercio intracomunitario”. L’Antitrust si è dato un anno di tempo per chiudere l’indagine. Indipendentemente dagli esiti, però, una cosa sembra chiara. L’industria televisiva italiana, per la prima volta da anni, ha cambiato strategia. Dalla posizione di attacco che ha caratterizzato per anni le iniziative di mercato dei principali broadcaster (star strappate a suon di contratti milionari, offerte aggressive ai limiti dell’autolesionismo sui portafogli degli inserzionisti, eccetera) adesso si è passati ad una posizione conservativa e di difesa. Il fatto contestato (la combine sui prezzi di acquisto dei diritti d'antenna), se confermato, getterebbe infatti una luce inquietante sulla solidità del sistema industriale della tv italiana. Solo pochi anni fa, un simile accordo sotto banco per tenere il più basso possibile il costo d'acquisto, sarebbe stato considerato impossibile. Adesso invece sono almeno tre i fattori macroeconomici che evidentemente hanno consigliato il cambio di strategia e che indicano molto chiaramente quanto possa essere profonda (anche se ancora sotterranea) la crisi del sistema tv del nostro paese. Il primo dato (il più importante) è la costante flessione del mercato pubblicitario in tv. Gli investimenti degli inserzionisti si stanno spostando con lentezza ma con costanza verso piattaforme alternative legate al web e al mondo dei social network. Facebook, con il suo miliardo e 200 milioni di utenti registrati, e con alcune recenti iniziative nel settore delle news e, soprattutto, dei video, è diventato un interlocutore molto interessante per la comunicazione commerciale delle imprese. Anche la piattaforma di Google, Youtube, sta cambiando posizionamento e, insieme con una gestione più attenta meno casuale dei flussi pubblicitari, sta cominciando anche a sperimentare alcune iniziative nel settore dello “Svod” (subscription video on demand) che rischiano di scompaginare ulteriormente il terremotato mercato tv. Buon ultimo, nel settore dei social, adesso ci si è messo anche “Spotify”, la piattaforma di condivisione musicale più diffusa al mondo (fra gli utenti annovera anche Obama). Proprio in questi giorni ha annunciato che è in atto una rivoluzione nel servizio proposto agli abbonati: da oggi in poi, si potranno vedere anche i video musicali dei cantanti preferiti, una forma di intrattenimento completa (immagini e musica) 24 ore al giorno e tagliata in modo personalizzato sui gusti dell’utente. E’ inevitabile che gli inserzionisti preferiscano questa forma di comunicazione alla tv e i dati di tendenza indicano il cambiamento in atto. Si tratta di un elemento che da solo è in grado di giustificare la preoccupazione e il nervosismo di coloro che si occupano di tv. C’è però un secondo dato, che provoca un ulteriore peso di inquietudine. Si tratta del successo di Discovery in Italia, una crescita sorprendente che ha dimostrato la "scalabilità" del sistema televisivo italiano. Si tratta di un fatto che ha incrinato, in pochi anni, la sicurezza di Rai, Mediaset e Sky. Discovery è l’ultimo arrivato nel mercato italiano ma in un tempo relativamente breve ha conquistato diversi telespettatori e inserzionisti. Si tratta di una rivoluzione inaspettata e sorprendente nei delicati equilibri del mercato tv in Italia. Una cosa del genere era successa solo altre due volte, con la nascita di Mediaset e poi con l’arrivo di Murdoch. L'ultimo dato, il più destabilizzante, è l'arrivo (annunciato) di nuovi competitor come Netflix o Google tv. I modelli di business alternativi che stanno facendo crescere in tutto il mondo le nuove imprese televisive come Netflix (al Festival di Cannes in questi giorni non si faceva che parlare di Netflix e dei suoi investimenti supermilionari) trovano del tutto impreparate le tv italiane. Di fronte alle nuove sfide del mercato internazionale, diventa così più comprensibile il tentativo del sistema italiano di chiudersi in difesa fino ad arrivare a mettersi d'accordo su un terreno, quello dei diritti di antenna per il calcio, che fino a pochi anni fa era stato il teatro di scontri epici e miliardari.
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