Nel momento in cui anche Draghi spinge per una riforma del lavoro in Italia, c’è un ambiente professionale “da Oscar” che ha portato e continua ancora oggi a portare molto lustro al nostro paese ma che si fonda quasi esclusivamente sul precariato dei rapporti di lavoro, con alcune anomalie mai sanate anche nel sistema dei contributi pensionistici. Si tratta del settore del cinema e della tv. In Francia “les intermittents du spectacle” protestano da anni. In Italia, invece, i sindacati sono sembrati troppo spesso più preoccupati della discutibile vicenda del Teatro Valle che della condizione dei nostri “intermittenti” dello spettacolo. La confindustria del cinema (l’Anica) intanto sta pensando ad una proposta legislativa per fare chiarezza sui contributi che i precari di cinema e tv versano all’Enpals, la cassa dei lavoratori dello spettacolo recentemente inglobata dall’Inps. La situazione del lavoro precario e intermittente del settore è aggravata da uno strano e perdurante silenzio stampa. Anche il Sole 24 Ore, nelle paginate che ogni anno, alla fine di agosto, dedica al cinema italiano, continua a dimenticare il tema del lavoro. A Venezia nella settantunesima edizione del Festival cinematografico più antico del mondo sono stati tantissimi i convegni e gli incontri che si sono svolti al Lido, come al solito. Neanche uno, però, è stato dedicato ai lavoratori dello spettacolo.
Cinema e tv. Un settore segnato dalla crisi e caratterizzato dal precariato
Il settore dello spettacolo è stato al centro dell’attenzione (volente o nolente) dei governi che si sono succeduti in questi ultimi venti anni. A fare la voce grossa, però, sono sempre stati i produttori e, in alcune occasioni, i divi più acclamati e conosciuti dal grande pubblico. Quasi tutti i lavoratori del cinema e della tv, invece, sono rimasti silenziosi. Non si conosce neanche il numero esatto degli occupati del settore. I contorni sono sfumati (chi lavora nel cinema o in tv può operare anche in altri settori e viceversa, in una sorta di osmosi magmatica difficile da definire e classificare) e la precarietà che è tipica del settore, inoltre, non aiuta ad avere dati chiari. Negli ultimi due anni sono state pubblicate, fra le altre, tre ricerche diverse. La prima è stata realizzata da UnIndustria Roma, dal Distretto dell’Audiovisivo e dell’Ict e dalla Camera di Commercio di Roma, è stata presentata a dicembre del 2012, ed è intitolata “L’impatto economico dell’industria audiovisiva in Italia”. La seconda è il rapporto che la Fondazione Ente dello Spettacolo realizza ogni anno in collaborazione con Cinecittà e il Mibact. La sesta edizione di questo Rapporto su “Il mercato e l’industria del cinema in Italia 2013” è stata presentata a luglio nella sede del Ministero, in Via del Collegio Romano. La terza ricerca è della (relativamente) giovane Confindustria Radio e Televisione presieduta da Rodolfo De Laurentiis. Il loro “Studio Economico sul Settore Televisivo Privato Italiano” è stato presentato a Roma, sempre a Luglio, a pochi giorni di distanza del rapporto dell’Ente dello Spettacolo.
I dati di Confindustria: 64.000 precari su 90.000 addetti
I dati che ne emergono sono abbastanza emblematici della difficoltà di fare un censimento delle forze lavoro. Secondo De Laurentiis «Il settore televisivo, come indica lo studio, ha generato nel 2012 ricavi complessivi pari a 9,5 miliardi di euro e occupato direttamente circa 26.500 addetti. In realtà la forza lavoro utilizzata nella filiera direttamente collegata al settore si stima raggiunga le 90.000 unità». Secondo il Rapporto dell’Ente dello Spettacolo, il settore cinema (e tv) è caratterizzato dai segnali inequivocabili della crisi oltre che dal permanere delle situazione di precariato. «Per quanto sia vitale, il settore rimane frammentato nella dimensione delle imprese che lo compongono con alcune evidenti anomalie. Il 96,3% delle aziende impegnate nell’audiovisivo ha meno di 19 addetti, ma produce appena il 30,6% del fatturato totale. Di contro, una minoranza costituita dal 3,7% delle aziende (ossia i grossi gruppi con più di 20 addetti) produce il 60,3% del fatturato di settore. Questo conferma che c’è ancora bisogno di un consolidamento senza tuttavia sottovalutare la ricchezza imprenditoriale rappresentata dalle piccole realtà, per loro natura più flessibili. E probabilmente proprio questa eccessiva parcellizzazione è una delle cause della instabilità lavorativa che colpisce il comparto».
Un settore segnato dalla crisi, secondo il rapporto dell’Ente dello Spettacolo
«Secondo i dati emersi dal Rapporto, solo il 44,8% dei lavoratori può considerarsi stabilizzato. La maggioranza, circa 52 mila addetti ha invece contratti a progetto di breve durata. Del resto, la crisi continua a farsi sentire anche nel mondo dell’audiovisivo, dove il numero di giornate lavorate all’anno è diminuito tra il 2012 e il 2011 del 5,3%, passando da 6,3 a 5,9 milioni», scrivono a due mani Ivan Maffeis, Presidente Fondazione Ente dello Spettacolo, e Roberto Cicutto, Amministratore Delegato Istituto Luce-Cinecittà Srl.
Un potenziale economico inespresso, secondo Unindustria
Nella ricerca di UnIndustria presentata alla fine del 2012, si legge, fra le altre cose, «Il settore Audiovisivo, comprensivo della produzione cinematografica e televisiva e delle emittenti televisive e dei network radiofonici, è un’industria vera: con 15,5 miliardi di fatturato si colloca in una posizione di assoluto rispetto e mediana tra i colossi dell’industria italiana; è anche un’industria di qualità nel rapporto con le imprese degli altri settori in termini di fatturato, costo del lavoro, investimenti e valore aggiunto per addetto». Sulla base di dati forniti da Istat, Enpals e EBT Lazio, UnIndustria ha calcolato che «Sono oltre 60.000 gli occupati del settore. È un’occupazione “liquida” nel senso che, salvo che nelle emittenti televisive e radio, è un’occupazione fatta in gran parte di professionisti che si raggruppano in team sulle diverse produzioni cinematografiche e televisive. Mediamente i giorni lavorati in un anno sono 75,4 con una variabilità notevolissima a seconda del tipo di lavoro».
La questione Enpals-Inps.
Quello dello spettacolo, inoltre, è un settore poco amato dai sindacati. Nelle proteste di questi anni si sono ascoltate soprattutto le voci delle imprese, rappresentate dai produttori e dagli artisti più famosi. I tecnici e gli artisti meno conosciuti invece si sono dovuti accontentare delle retrovie. Un eccezione significativa è la Class Action avviata dal musicista Enrico Dindo contro l’Enpals. La cassa previdenziale dello spettacolo recentemente è stata inglobata nella struttura dell’Inps ma, per quanto riguarda i meccanismi contributivi, poco o nulla è cambiato per i lavoratori. Nel 2007 Enrico Dindo ha lanciato una petizione per una questione non marginale legata ai contributi dovuti all’Enpals. La questione è ancora aperta, nonostante il passaggio all’Inps, e la petizione nel frattempo ha raccolto quasi ventimila firme. Ecco come lo stesso Dindo racconta la vicenda: «Per ogni concerto tenuto in Italia, la legge ci obbliga a versare per la previdenza una percentuale del nostro cachet, e anche gli enti organizzatori devono pagare un'ulteriore quota. In totale, per ogni nostro concerto viene versato più del 30% del nostro cachet, ma, in pratica, nessuno di noi avrà mai diritto alla pensione. Infatti, la legge prevede che la pensione per la nostra categoria professionale venga erogata dopo almeno 20 anni di contributi, e per raggiungere un anno occorrono 120 giornate lavorative. Poiché generalmente un concerto viene conteggiato come una giornata contributiva, per raggiungere un anno di contributi sarebbero necessari circa 120 concerti effettuati in Italia con regolari contributi versati. Per raggiungere la quota necessaria per la pensione, ossia 20 anni, sono quindi necessari 2.400 concerti effettuati in Italia: un traguardo che nella storia della Repubblica Italiana forse nessun concertista classico è mai riuscito a raggiungere. Infatti la nostra professione prevede che i concerti siano preceduti da un lungo periodo di preparazione (che l'Enpals evidentemente ignora), e per di più molti di noi svolgono la propria attività principalmente all'estero, la quale di solito non rientra nei conteggi Enpals. Se la legge non cambia, non solo non avremo mai la pensione pubblica, ma neanche ci verrà restituita l'enorme cifra versata invano».
Un problema da affrontare, insomma. Il presidente di Anica, Riccardo Tozzi, non ne fa mistero. Vorrebbe che il Parlamento cominciasse a ragionare su una possibile riforma del sistema. Ma dipenderà dalla sensibilità e dall’attenzione che a questo tema daranno le forze politiche..
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