Si è molto dibattuto sul fatto che il Governo abbia inserito delle clausole di salvaguardia a garanzia dei conti nel 2020 e 2021. Analoga attenzione non era stata dedicata alle clausole introdotte dai governi precedenti. Questo è infatti l’ottavo anno consecutivo che i nostri governanti fanno ricorso a questo strumento che rappresenta un escamotage contabile, nelle intenzioni temporaneo, rispetto alla necessità di “coprire” le traiettorie di rientro del disavanzo (e del debito) concordate con Bruxelles in virtù degli accordi vigenti. Vi è un detto americano che rende molto bene quello che si sta facendo: “kick the can down the road”: rinvia, prendi tempo, procrastina, aspetta tempi migliori….
La vicenda ha inizio nel 2010 con la finanziaria per il 2011 (Governo Berlusconi) che, secondo una consolidata vocazione alla finanza creativa, introduce una clausola di salvaguardia di 20 miliardi di euro che prevede un aumento automatico dell’Iva e delle accise sui carburanti, o un taglio delle agevolazioni fiscali a garanzia di (incerti) tagli lineari sulla spesa.
Nell’estate del 2012, il Governo Monti decide di sterilizzare 13,4 miliardi della clausola precedente e posticipare, al luglio 2013, 6,6 miliardi di aumento automatico dell’Iva a garanzia di ipotetici tagli alle agevolazioni fiscali e alle prestazioni assistenziali. Il Governo Monti è in realtà l’unico ad aver indicato un percorso plausibile (e possibile) di sterilizzazione completa dello strumento nell’anno successivo (6 miliardi non sono poi tanti).
Il Governo Monti si dimette ad aprile 2013, e il successivo Governo Letta non riesce a sterilizzare la clausola residua (la cui entrata in vigore era prevista per il luglio), e quindi aumenta l’Iva di un punto ottenendo così i 6,6 miliardi ipotizzati da Monti; tuttavia con la successiva legge di stabilità introduce nuove clausole di garanzia a copertura della spending review, nella forma di un taglio automatico alle detrazioni e alle agevolazioni fiscali: 3 miliardi per il 2015, 7 miliardi per il 2016 e 10 miliardi per il 2017, per un totale di 20 miliardi. Il profilo temporale crescente delle clausole può essere giustificato da una mal riposta fiducia sulla efficacia della spending review allora in corso (affidata a Cottarelli), ma risulta oggettivamente pericoloso.
Interviene poi il Governo Renzi responsabile di due leggi di stabilità con quali si introducono 51,6 miliardi di nuove clausole che ancora condizionano i nostri conti pubblici. Si provvede innanzitutto a sterilizzare interamente la clausola Letta per il 2015 (3 miliardi), e parzialmente per gli anni successivi (per 3 miliardi l’anno), al tempo stesso si introduce una nuova clausola di aumento dell’Iva e accise per 12,8 miliardi per il 2016; per il 2017 si sterilizzano completamente il residuo delle clausole Letta (4 miliardi) nonché l’aumento dell’Iva previsto dalla precedente legge di stabilità (12,8 miliardi), per un totale di 15,4 miliardi, e si introducono ulteriori clausole per 19,2 miliardi nel 2017 e 19,8 nel 2018. Anche nel caso di Renzi, oltre alla loro robusta entità, le clausole previste sono crescenti nel tempo.
A Gentiloni (L. di bilancio 2018) tocca la sterilizzazione totale per il 2018 (19,8 miliardi) e parziale per il 2019 (6,4 miliardi) delle clausole relative agli aumenti di Iva e accise ereditate da Renzi, mentre nessuna decisione viene presa riguardo il carico pendente per gli anni 2020 e 2021. Nel complesso, l’eredità che il Governo Gentiloni lascia all’esecutivo Conte è di circa 51 miliardi di clausole attive, di cui 12,5 miliardi pendenti per il 2019, 19,2 per il 2010 e 19,6 per il 2021.
Infine, il Governo Conte ha sterilizzato interamente l’aumento dell’Iva previsto per il 2019 e parzialmente quelle previste per il 2020 e il 2021 (risp., 5,5 e 4 miliardi). Contestualmente ha però introdotto nuove clausole per un totale di 22,5 miliardi in due anni. Anche se non si può dire che il governo Conte sia quello che si è peggio comportato, va detto che per disinnescare le clausole previste per il prossimo anno l’attuale Esecutivo si è già “regalato” l’esigenza di dover trovare 23 miliardi (pari a circa l’1,2% del Pil) di maggiore risorse. Operazione a dir poco ardua se si pensa che l’economia globale si trova attualmente in fase di forte rallentamento e che un eventuale dimezzamento della crescita nominale attesa per il 2019 potrebbe anche far saltare l’attesa inversione di tendenza del rapporto debito-Pil prevista per la fine del prossimo anno e fortemente voluta dalla Commissione.
Quello che emerge da questa faticosa ricostruzione è che il risanamento definitivo della nostra finanza pubblica è stato considerato impraticabile da tutti i Governi che si sono succeduti dal 2010 (con l’eccezione, forse, del Governo Monti), e che la Commissione a sua volta ha sempre riconosciuto di fatto che le sue pretese contabili fossero eccessive, e si è affrettata a riconoscere margini di flessibilità e tolleranza, senza troppo preoccuparsi della loro utilizzazione. Né la Commissione ha ritenuto di correggere il modello con cui essa calcola il disavanzo strutturale dei vari Paesi per essendo evidente che esso non è affidabile da un punto di vista scientifico, e pur in presenza di valutazioni considerevolmente diverse da parte di FMI e OCSE.
L’Italia peraltro non ha utilizzato i margini di flessibilità disponibili per effettuare l’unica politica possibile per conciliare le diverse esigenze (crescita, equilibrio della finanza pubblica, riduzione del debito), e cioè quella di utilizzarli per accelerare in ogni modo spese per investimenti ad alto moltiplicatore, utilizzandoli invece per elargizioni varie con la finalità di ottenere un consenso che poi non è arrivato.
Questo è lo stesso errore che sta compiendo il Governo attuale il quale, però, rischia di dover pagare il conto non solo della sua imprevidenza, ma anche di quella di coloro che lo hanno preceduto. Non è quindi del tutto infondato pensare ad un possibile scenario di brevissimo periodo in cui l’esigenza di dover raddrizzare i conti possa indurre Conte e la sua compagine a seguire l’esempio di Letta facendo scattare alcune clausole su Iva e accise. Ma per fare ciò sarebbe indispensabile che la maggioranza “dicotomica” su cui basa la sua fiducia il gabinetto Conte converga sull’esigenza di accollarsi una politica fiscale restrittiva che annulli quanto di (poco) espansivo è stato sinora varato attraverso l’ultima legge di bilancio. Ipotesi, quest’ultima, molto improbabile e che anzi potrebbe in breve tempo innescare il “trigger event” che può portare alla dissoluzione di questa esperienza di governo e ad elezioni anticipate.
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