La nuova tv è un fenomeno complesso e il dibattito in Italia sembra ancora fermo alla preistoria. Disintermediazione tecnologica e abbattimento delle frontiere fra le piattaforme di distribuzione sono solo le due punte di un iceberg che finirà per modificare radicalmente le strategie politiche e culturali e i modelli di business della tv del futuro. I cambiamenti ormai sono diventati frenetici. Solo il 14 settembre scorso, un documentato articolo sul Sole 24 ore firmato da Luca Salvioli, fra le altre cose suggeriva: “Pensate se in Italia la Lega Calcio facesse un app direttamente per la Apple tv”. Dopo 3 giorni, il 17 settembre, la Lega Calcio annunciava ufficialmente la nascita di una joint venture con Tim e con Infront per il varo del primo canale televisivo via internet interamente dedicato alle partite di serie A. Come è noto, la prima gara italiana per l’assegnazione dei diritti di trasmissione via Internet del campionato di calcio era stata disertata. Così la Lega ha deciso di tenere per sé i diritti e di diventare distributore diretto delle partite di calcio. Un modello di business assolutamente inedito per i proprietari delle squadre del calcio italiano che finirà per avere conseguenze adesso ancora difficilmente misurabili sulle complesse dinamiche dei listini dei diritti tv. E tutto questo, alla faccia degli appetiti che sembravano, fino a qualche tempo fa, apparentemente inesauribili di Rai, Mediaset e Sky. Certo Apple Tv, come suggeriva Salvioli sul Sole 24 ore, sembra ancora lontana. La differenza però è che ora la Lega è pronta per affrontare, senza l’ingombrante compagnia dei broadcaster italiani, il mare aperto del business via internet come fanno in Usa già tempo le principali federazioni sportive. Anche in Italia adesso le cose stanno cominciando a cambiare rapidamente. L’arrivo di Netflix con il suo super listino di film a pochi euro, finirà inevitabilmente per rimettere in discussione alcune posizioni di predominio che, fino a ieri, sembravano “intoccabili”. Sky, per esempio, dopo lo sbarco di Netflix, non sarà più la sola detentrice dei comodi servizi della tv “on demand” con serie tv e film da poter vedere fuori orario all’interno di un palinsesto personalizzato arricchito dai tasti “play”, “pause” eccetera. Netflix, infatti, per un canone decisamente più basso offre un listino imbattibile di prodotti molto appetibili e, inoltre, consente agli utenti di usufruire delle stesse identiche comodità dell’on demand di Sky senza però avere il fastidioso ingombro del “set top box” nero e arrotondato che abbiamo conosciuto in questi anni. La televisione sul web, nel frattempo e in anticipo sull’arrivo di Netflix, sta diventando una realtà sempre più diffusa. Basterebbe domandare ai ragazzi quanti film hanno già comodamente (e gratuitamente) scaricato dall’applicazione di streaming “peer to peer” che si chiama “Popcorntime”. Una home page facilissima da usare (provare per credere) per vedere tranquillamente sul televisore di casa (e con sottotitoli) tutti i nuovi film e le serie tv più desiderate del momento. In questa applicazione è interessante il modello che è stato adottato per il “palinsesto” delle proposte: è identico a quello di Youtube e comunque simile a quello dei social. Quando si apre l’applicazione, vengono proposti i titoli più apprezzati e più scaricati dal pubblico della rete e non quelli decisi dal marketing delle major. Il business della televisione sta veramente cambiando. La vecchia tv commerciale degli anni 80 che ha fatto la fortuna di Berlusconi e di pochi altri, sta rapidamente tramontando. Il modello stesso di servizio pubblico è stato violentemente rimesso in discussione dalle profonde trasformazioni tecnologiche. A cominciare proprio da quelle che sembrano più innocue. Proviamo ad immaginare una situazione che in questi giorni abbiamo visto tante volte nelle news. I migranti sono alla frontiera. Lo schermo del nostro tablet mostra le immagini di una disperazione moderna e, nello stesso tempo, antica. Occhi sbarrati per la rabbia o socchiusi per la paura. Incliniamo il tablet e le immagini ruotano mostrandoci il cielo azzurro, il verde dei campi vuoti e, una volta terminata la rotazione, il volto impassibile dei militari, le mani sui cinturoni, gli scudi antisommossa appoggiati alle gambe. Dietro di loro scorgiamo la serenità della terra promessa. Si tratta di una nuova tecnologia per le riprese televisive. Si chiama, in gergo, “360”. Sono otto (o più) videocamere montate su un bastone e coordinate da un software. La ripresa di un evento (l’assalto alla frontiera o la partita di calcio, poco importa) è sferica, a 360 gradi appunto. I video, una volta scaricati su un televisore o su un mobile device, sono completamente interattivi. Con una leggera inclinazione del telefonino, possiamo cambiare punto di vista e scegliere come seguire un evento e cosa guardare (o nascondere) alla nostra vista. E’ la morte del regista ed è, soprattutto, la fine della morale. Alla faccia delle dotte disquisizioni sul ruolo degli intellettuali. Alla faccia della patente per gli operatori della comunicazione proposta da McLuhan. Il relativismo rischia, in questo modo, di diventare anche e soprattutto una tecnologia. Lo stesso McLuhan già nel 1964 lo aveva definito un "narcisistico torpore"e aveva scritto: “I nuovi media e le nuove tecnologie con cui amplifichiamo ed estendiamo noi stessi costituiscono una sorta di enorme operazione chirurgica collettiva eseguita sul corpo sociale con la più totale assenza di precauzioni antisettiche”. Per anni intellettuali e politici si sono battuti contro il pericolo del pensiero unico e si sono ribellati all’idea del grande fratello (o del “grande regista”). In questo modo però la tecnologia “social” del web 2.0 e del conformismo (per meglio dire, del “banalismo”) parcellizzato, ha così trovato il terreno favorevole per nascere e per espandersi all’infinito. L’assenza di un giudizio critico sulla realtà e l’abbattimento del ruolo dei mediatori (giornalisti, autori, intellettuali) sono due derive negative che si alimentano oggi quindi anche con le nuove tecnologie. Se la televisione infatti, in nome del progresso, rinuncerà al proprio ruolo di “interprete” della realtà lasciando allo scatenato e piatto conformismo di quella fasulla cultura della condivisione che si respira sul web e sui social il compito di “dettare l’agenda” della politica, si potrebbero avere presto brutte sorprese. I veri pericoli della televisione sul web sono di natura politica, non economica. In queste settimane si registra il “successo” di “X Factor”, il contest di Sky per aspiranti cantanti. Il linguaggio di questo format è costruito ad arte per alimentare il “buzz” sul web e sui social. Si tratta di un fenomeno che sta crescendo a dismisura e che rende sempre più difficile distinguere informazione e intrattenimento di qualità dal “brusio”, dal “buzz” dei social appunto. Tutti ricordiamo di aver visto la tragedia dell’11 settembre in televisione. Alcuni ricercatori americani dicono che oggi invece avremmo seguito l’evento sui social, su Facebook e Twitter, principalmente. Si tratta di un evoluzione del consumo mediatico che genera preoccupazioni inedite. Un nuovo studio condotto dal “Pew Research Center” in collaborazione con la “John S. and James L. Knight Foundation”, rivela che aumenta di anno in anno, e in modo significativo, il numero degli americani che affermano di usare i “social” come fonte di informazione. Il 63% degli utenti dice di “catturare” le notizie giornaliere direttamente dai post pubblicati da altri utenti su Facebook o su Twitter. Un anno fa erano il 52% su Twitter e il 47% su Facebook. La crescita è molto rapida e il trend sta cominciando a porre problemi che erano completamente sconosciuti il giorno dell’attentato alle torri gemelle. Secondo le società di ricerca “Demos” e “Ipsos Mori”, l’enorme quantità di persone che ogni giorno usa i social ha spinto il marketing a “sovra-utilizzare” il mondo del “web 2.0” per le indagini di mercato. Quell’enorme campione statistico degli “smanettatori compulsivi” di Twitter e Facebook, però, non rappresenta la società reale, dicono gli esperti. Insieme con la “Sussex University” e la “CASM Consulting”, “Demos” e “Ipsos Mori” hanno condotto una ricerca che hanno chiamato “ The Road to Representivity” (La strada della rappresentatività). Hanno posto le stesse domande (su fatti di attualità, sulla politica e sui prodotti commerciali) con due modalità differenti: off line e on line. I risultati dei questionari sono molto diversi gli uni dagli altri. Alcuni temi sono sembrati importantissimi agli utenti dei social mentre venivano percepiti da tutti gli altri come meno rilevanti. Succede anche in politica: la popolarità sui social, infatti, non corrisponde quasi mai ad un vero gradimento degli elettori. La differenza fra “buzz” (ciò di cui si parla e che alimenta le grandi correnti oceaniche dei social) non si sposa quindi con ciò che è considerato veramente importante per la vita quotidiana delle persone. Il tema non è banale. Facebook, di recente, ha introdotto un nuovo strumento di navigazione, una barra laterale che si chiama “Trending” e che permette agli utenti di seguire solo gli argomenti più discussi (al top del “buzz”) in rete. Lo stesso sta sperimentando anche Twitter: da tempo lavorano a “Project Lightning”, uno strumento di navigazione che permetterà agli utenti di seguire “in diretta” tutti i “tweets” su un determinato evento. Si tratta di due strumenti che non faranno altro che aumentare in modo artificioso il “buzz” su certi temi escludendo tutti gli altri. La cronaca del crollo delle torri del WTC, in questo modo, sarebbe finita sommersa in un oceano di esclamazioni dal sapore fortemente naif e di aforismi rigorosamente in 140 caratteri. “C'è una grande opportunità, naturalmente. Ma c'è anche un grande pericolo”, dicono ad una voce Carl Miller, co-fondatore e direttore delle ricerche del centro per l'analisi dei social media di “Demos”, e Steve Ginnis, capo della ricerca digitale del Social Research Institute di “Ipsos Mori”. “La scienza ora può far uso di un maggior numero di dati, che sono anche più ricchi e più aggiornati rispetto a prima. Ma il pericolo è che, in una gara dove sembrano avere importanza solo i numeri sempre più grandi, e acquisiti sempre più in fretta, si rischia di perdere di vista molti dei principi più importanti che la scienza sociale ha faticosamente stabilito in un più di un secolo di attività. Il rigore, nel metodo e nei risultati, è la sfida più importante che abbiamo di fronte oggi”, spiegano. Il mondo dei social infatti rischia di diventare una sorta di artificiale “agenda setter” per la politica e la pubblica opinione. Il problema però è che non è in grado di rappresentare “veramente” gli interessi e le priorità quotidiane della vita off line e cioè della vita reale. Sono questi gli elementi meno evidenti ma più inquietanti della rivoluzione che sta modificando il modo di produrre e di consumare televisione. Il televisore in salotto, come dicono ormai gli esperti, è destinato a diventare solo lo “schermo più grande” dove seguire, in una sorta di flusso continuo e quindi senza soluzione di continuità, quello che già smanettiamo sugli schermi più piccoli degli smartphone o dei tablet. La “bolla” della tecnologia di ripresa denominata “360” diventa così una sorta di metafora filosofica della bolla di indifferenza che rischia di diventare la nostra dieta mediatica. Nella “bolla” un punto di vista è simile a tutti gli altri. Uguale, non differente. Indifferente, appunto. Solo due anni fa, Papa Francesco a Lampedusa, parlando da un pulpito costruito con i rottami delle barche dei migranti, aveva detto: “Abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell'indifferenza”.
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