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Globalizzazione, rivoluzione digitale, guerra commerciale: le mire espansionistiche della politica digitale Usa

28/04/2016
Tra i colossi di Silicon Valley e la politica Usa ormai è alleanza stretta. Anche i meccanismi elettorali sono direttamente influenzati dalle attività digitali. L'obiettivo comune è riproporre in chiave digitale l'influenza globale avuta dagli Usa fino ad oggi nel mondo dell'economia (e della politica) reale. Negli ultimi otto anni l’economia digitale americana si è già espansa globalmente. Ad opporsi sono rimasti però i mercati più interessanti: Russia e Eurasia, Cina, India e far East. In Cina, solo pochi giorni fa, il governo ha bloccato tutte le attività di commercio elettronico di libri, musica e film della Apple, inibendo l’uso di iBookstore e di iTunes Movies. Alibaba, il più credibile concorrente asiatico dello strapotere dei giganti di Silicon Valley, sta spendendo tutte le sue energie per stipulare alleanze strategiche con il mercato europeo della qualità enogastronomica e del design. In Europa è lo stesso. I colossi Usa vorrebbero usare l'Unione come una testa di ponte (purché non esca la Gran Bretagna). Quale sarà la risposta? La forza e la determinazione dell'Ue non sono le stesse della Cina. Anche dal punto di vista delle potenzialità di concorrenza. Basti pensare che, secondo uno studio condotto dalla società di consulenza Roland Berger, il valore complessivo delle prime dieci società statunitensi del web ammonta a quasi 1800 miliardi di euro contro i 29 miliardi del fatturato complessivo di tutte le aziende digitali europee.

La terza guerra mondiale sarà digitale (grazie a Obama). Un drone sorvola giocattoli e sdraio sparpagliati nel giardino in una qualsiasi periferia Usa. Il padrone di casa, senza esitazioni, imbraccia il fucile, spara e distrugge la macchina volante. Andrew Napolitano, giudice (ormai in pensione) della Corte suprema, davanti alle telecamere di Fox News, aveva detto: “Il primo patriota che abbatterà uno di quei droni, quando si avvicinerà troppo ai suoi figli nel cortile di casa, sarà un eroe americano”. Basterebbero questa immagine e questa dichiarazione per capire i due grandi misteri della politica internazionale ed economica del momento: perché l’urticante repubblicano Donald Trump potrebbe diventare il prossimo inquilino della Casa Bianca (con buona pace della navigata democratica Clinton); perché l’Europa ha dichiarato guerra al pilastro dell’economia americana, l’industria digitale (con buona pace di otto anni di politica espansionistica digitale di Obama). 

L’alleanza di Obama con Silicon Valley. Barack Obama, 8 anni fa, divenne presidente degli Usa anche grazie ad un’alleanza strategica micidiale con i big di Silicon Valley. Nel suo staff, durante la campagna elettorale, c’erano personaggi come Bill Gates, Steve Jobs, Larry Page, Sergey Brin. All’appello mancava ancora Mark Zuckerberg. Era troppo giovane. Durante i due mandati presidenziali di Obama però è stato recuperato il tempo perduto. Obama oggi ha un suo profilo su Facebook e lo stesso Zuckerberg, a San Francisco durante l’evento “F8” (l’annuale conferenza degli sviluppatori di Facebook), ha lanciato un vero e proprio manifesto politico contro Trump e il partito repubblicano. “Condanna nazionalismi e xenofobia, invoca la comprensione per l'altro e la solidarietà. Attacca esplicitamente Donald Trump. Non è papa Francesco, è Mark Zuckerberg”, ha scritto Federico Rampini di Repubblica in un brillante lead di un suo articolo dalla California. 

Washington e la politica digitale. Ma cosa unisce i destini di Silicon Valley e le strategie politiche di Washington? Sostanzialmente due cose. Innanzi tutto la politica ha capito che senza il dominio della vita digitale non si vincono le elezioni (e non si gestisce il potere). Lo raccontano, seppure in modo un po’ confuso, anche gli autori della ultima stagione di “House of cards”. Fuori dalle finzioni delle serie tv, c’è però, nella realtà, un sistema che è diventato oggetto di studio in tutto il mondo (anche in Italia) e che sta cambiando le regole di ingaggio della politica Usa. Si chiama “Countable”, è un sito che mette insieme in modo geniale e innovativo attività social, gamification platform e app. Ha già milioni di utenti e ogni giorno chiede agli elettori americani di esprimere giudizi interattivi sulle nuove iniziative legislative della Casa Bianca e del Congresso. Il risultato è una straordinaria profilazione di profondità dell’elettorato americano. La nuova economia digitale dei garage di Silicon Valley, è il secondo punto, ha sempre avuto fretta. Da zero a 100 miliardi in pochissimo tempo, è stata la molla esistenziale prima ancora che economica dei vari nerd privi di scrupoli che hanno sfondato tutte le regole più consolidate delle borse valori di tutto il mondo. L’alleanza con la politica deve essere sembrata quindi una possibile ulteriore scorciatoia per diventare più ricchi in modo ancora più veloce. Una strategia di oscura connivenza con il potere che è lontana anni luce dalla filosofia fricchettona che disegnava il futuro del web come patria della libertà e del sogno americano.

Le mire espansionistiche della politica digitale Usa. Negli ultimi otto anni l’economia digitale americana si è espansa in tutto il mondo occidentale come una sorta di nuovo piano Marshall paradossale. Ad opporsi, nel mondo, sono rimasti però i mercati più interessanti: Russia e Eurasia, Cina, India e far East. In Cina, solo pochi giorni fa, il governo ha bloccato tutte le attività di commercio elettronico di libri, musica e film della Apple, inibendo l’uso di iBookstore e di iTunes Movies. Alibaba, il più credibile concorrente asiatico dello strapotere dei giganti di Silicon Valley, sta spendendo tutte le sue energie per stipulare alleanze strategiche con il mercato europeo della qualità enogastronomica e del design. A Verona, durante Vinitaly, ha messo a disposizione la sua enorme piattaforma di commercio elettronico per la promozione e la vendita del vino italiano. L'Asia e l'Est del mondo, insomma, non intendono fare da materasso alle mire Usa. Un problema di fronte al quale i giganti di Silicon Valley non intendono restare con le mani in mano. Al “F8” di San Francisco, ha raccontato il giornalista di Repubblica, Federico Rampini: “Il 31enne fondatore e chief executive di Facebook ha illustrato un piano decennale per lo sviluppo strategico del social media, che è anche un condensato della filosofia e dei valori della sua azienda. Un social network da 1,6 miliardi di utenti, che a Zuckerberg ‘va stretto’: la sua ambizione è collegare a Internet tutti i 7 miliardi di abitanti del pianeta”. 

Il ruolo dell’Unione europea. Obama a Londra, per l’anniversario record di Elisabetta, si è molto speso contro l’ipotesi della Brexit. La strategia è chiara. Passa dalla disastrosa gestione della crisi in Ucraina o in Siria fino ad arrivare ai comizi inopportuni di Obama a Londra. Le multinazionali digitali Usa (veri padroni e burattinai incontrastati di Washington) vogliono usare l’Unione europea come un piedistallo (una testa di ponte) in funzione anti orientale. Una unione europea senza Londra sarebbe però meno controllabile per gli Usa. Per questo motivo Obama è corso a Londra a fare propaganda contro il referendum della Brexit. Secondo uno studio condotto dalla società di consulenza Roland Berger, il valore complessivo delle prime dieci società statunitensi del web ammonta a quasi 1800 miliardi di euro contro i 29 miliardi del fatturato complessivo di tutte le aziende digitali europee, ha scritto Alessandro Alviani su La Stampa. Come a dire che non c’è proprio partita. Arroganti e aggressive le web company mostrano in Europa il loro lato peggiore. Dalle reiterate politiche di elusione fiscale adottate in Europa (neanche Renzi è riuscito ad esprimere più che un timido balbettio legislativo sul tema) alle strategie di stampo monopolistico. L’Europa così ha puntato i piedi e sta cominciando a dire “basta”. La recente decisione dell’antitrust della Ue contro le mire di Google si inserisce in questo contesto. Sullo sfondo ci sono preoccupazioni molto concrete legate all’evoluzione del mercato reale. Il commercio elettronico e la distribuzioni delle merci sono ormai strettamente controllati dal web. 

Il rapporto con Medio Oriente, Eurasia e Far East. La crisi umanitaria dei rifugiati e le sanzioni verso il mercato russo che ci costringono a rivedere al ribasso le politiche di alleanza strategica dell’Europa con il medio oriente e l’est europeo, sono immagini ancora più inquietanti se vengono viste alla luce dell’analisi delle strategie del web americano. 

La campagna elettorale di Trump. Contemporaneamente, anche negli stessi Usa, il controllo così stretto del web sulle vite e sulle abitudini dei cittadini (scatenato dalle strategie digitali dell’amministrazione Obama) sta innescando un meccanismo di rigetto che Trump è riuscito ad intercettare con tempismo e freddezza. L'immagine dei cittadini che potrebbero sparare ai droni impiccioni è la metafora di un paese che non ne può più dell'invasività del web nelle loro vite. 

La nuova guerra digitale. All’Europa non resta che la prospettiva di una terza guerra mondiale che, per la prima volta, sarà combattuta contro gli Usa e non al loro fianco. Una guerra che sarà tutta digitale. Le decisioni dell’Antitrust sono solo la punta di un iceberg. In Germania, la “Internet Economy Foundation”, un gruppo di interesse che riunisce alcune importanti web company tedesche, sta esercitando una forte pressione sul tema degli investimenti. Secondo le analisi che hanno proposto alla Merkel e ai rappresentanti europei, nel 2015 negli Usa sono stati investiti 53 miliardi in venture capital contro gli scarsi 15 miliardi in Europa. Il piano di investimento che la “Internet Economy Foundation” sta proponendo alla Merkel e a Juncker prevede uno stanziamento di circa 50 miliardi di euro a favore delle start up digitali. Ad est, Russia, Cina e India, per il momento, si limitano a mettere i bastoni fra le ruote ad ogni mira espansionistica dei padroni del web Usa e aspettano che l’Europa scelga da che parte stare. 

L’assalto al fortino dei mezzi di informazione. La terza guerra digitale, quindi, è appena cominciata e una parte di questa guerra si svolgerà anche sui mezzi di informazione, brand forti anche se parte del vecchio mondo. Mentre il francese Bollorè, con Vivendi, persegue il sogno grandioso di costruire la prima media company europea, Google e Facebook si stanno attrezzando per uccidere il giornalismo. Ecco come. Si deve tornare ancora una volta all’evento organizzato da Zuckerberg  a San Francisco. Sullo schermo giganteggiano le immagini panoramiche di una telecamera a 360° piazzata al centro di un campo di rifugiati in Europa. Dove esattamente nessuno lo sa. Viene subito messa a tacere anche la voce del giornalista che, in collegamento, avrebbe potuto dare qualche informazione in più. La platea di addetti ai lavori però applaude compulsivamente. Si tratta della cronaca di una dimostrazione delle nuove strategie per il giornalismo partecipato che Facebook ha presentato al “F8”. Sul palco c'era Will Cathcart, un esperto che gli addetti ai lavori hanno già ribattezzato il “news feed guru” di Facebook. 

L’industria dei media ha smesso di produrre innovazione. Apparentemente nessuna delle iniziative che Google, da una parte, e Facebook, dall'altra, stanno prendendo in questi mesi sono collegate fra di loro. Il risultato però è sorprendente. L'industria dell'informazione internazionale ha smesso di produrre innovazione e tutti gli editori si sono messi a seguire (e a scodinzolare) dietro ad ogni annuncio dei due giganti del web. I dati sono preoccupanti. Le due aziende, già da tempo, stanno investendo una parte rilevante dei loro smisurati guadagni in settori apparentemente molto lontani dal core business originale. Intelligenza artificiale, realtà virtuale, droni, sono solo alcuni dei campi dove i laboratori di ricerca di Facebook e Google stanno spendendo milioni di dollari. Sullo sfondo ci sono sempre e soltanto i contenuti che le persone cercano con Google e che condividono con Facebook. 

Digital News Initiative di Google. L'industria del giornalismo internazionale non poteva rimanere fuori dagli infiniti appetiti del web Usa. Google, per esempio, in Europa ha lanciato “Digital News Initiative”, una gara per l'innovazione che è aperta a tutti gli editori europei. Sul tavolo ha messo finanziamenti ingenti, circa 150 milioni di dollari. I fondi vengono elargiti arbitrariamente a quelle iniziative editoriali che dimostrino una capacità innovativa di far girare un numero maggiore di contenuti nel motore di ricerca di Google. In una spirale di autolesionismo che rischia di uccidere il giornalismo, gli editori hanno aderito con entusiasmo. Si stanno sbizzarrendo così ad inventare nuovi sistemi per alimentare un sistema informativo che sia coerente con gli algoritmi di Google e non con i principi della libertà di espressione e del pluralismo. 

Gli articoli istantanei su Facebook. Facebook ha lanciato nel frattempo una nuova applicazione che agevolerà la pubblicazione istantanea di articoli e di notizie. Gli esperti di Zuckerberg hanno capito che lo scambio di informazioni personali sta diminuendo mentre invece sta aumentando il ritmo dello scambio di informazioni di interesse generale. Facebook, però, sa bene anche che un link ad una pagina esterna corre il rischio di “distrarre” l'utente. L'utilizzatore ideale di Facebook deve rimanere profondamente immerso nel sistema chiuso del network più grande del mondo. 

Le nuove lampare. Diventa così più chiaro perché al “F8” di San Francisco Will Cathcart non si sia preoccupato di dire in quale centro profughi fosse stata piazzata quella telecamera 360° e non abbia avuto esitazioni nel togliere l'audio al giornalista. Il dramma dei rifugiati, il prato della Casa Bianca o il tappeto rosso degli Oscar, nella strategia di Facebook, hanno lo stesso valore. Svolgono la medesima funzione delle lampare che, nelle notti d'estate attirano pesci inconsapevoli nelle reti dei pescatori. Sarà veramente una stranissima guerra.

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