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Sette mosse per dare scacco al dopo crisi.

01/06/2018
Le imprese pretendono dalla politica un contesto favorevole e una strategia per il Sud.

Pubblicato su il Sole 24ore, il 31 maggio.

Nonostante progressi recenti la debolezza dell'economia italiana permane, oltremodo preoccupante per i mercati, per l'intera Europa, soprattutto per il Paese. Anche se montasse la bava di recupero ciclico del Pil che è in atto (1,5%, se non meno), non v'è crescita. L'accumulazione e l'innovazione i due motori dello sviluppo sostenibile, di trend sono spenti. Dal 2010 al 2017 lo stock di capitale (non residenziale) è scemato, cumulativamente quasi del 10%: gli investimenti lordi non sono bastati a compensare il logorio fisico e l'obsolescenza tecnologica degli impianti e macchinari esistenti. Non c'è progresso tecnico. La produttività totale è stata stagnante sin dal 1992, in lunghe fasi addirittura diminuendo. Sono quindi contemporaneamente crollate sia la domanda globale sia l'offerta globale! La caduta è stata di simile entità, e solo il caso ha evitato tanto l'inflazione quanto la deflazione dei prezzi.

Affmché si torni alla crescita occorre il concorso di almeno sette sviluppi nella politica economica e istituzionale, interna ed europea: eventi che contemporaneamente sostengano la domanda globale, consentano e promuovano la produttività.

1. Il disavanzo di bilancio va azzerato, e quindi il debito pubblico bloccato. Secondo l'Fmi il disavanzo al netto del ciclo (1,5% del Pil) è ben inferiore alla media delle major advanced economies. L'equilibrio che la Costituzione vuole non è lontano. Lo spazio correttivo resta ampio. Occorrono una severa revisione, politica e non solo contabile, delle spese gonfiate da trasferimenti inutili, inefficienze, corruzione, sottoutilizzo del formidabile potere monopsonistico della Pa nelle forniture e negli appalti; un colpo duro inferto all'evasione (secondo proposte quali quelle avanzate, e in passato praticate, dal ministro Visco); il ritorno stesso alla crescita. La spesa pubblica aggredibile è dell'ordine del 15% del Pil (250 miliardi di euro); l'evasione concentrata presso i produttori e nel sommerso è da alcuni anni in aumento verso i 150 miliardi (9% del Pil). Da un quarto del prodotto la classe politica deve ottenere i due punti percentuali necessari a pareggiare i conti pubblici.

2. Gli investimenti in infrastrutture costituiscono l'unica misura di bilancio capace di sostenere tanto la domanda quanto la produttività. Caduti a meno del 2% del Pil (da 54 miliardi nel 2009 a 33 lo scorso anno), sono da riportare a oltre il 3% del Pil, pianificandone per tempo la migliore attuazione secondo una precisa scala di priorità economico-sociale. Il loro moltiplicatore della domanda (1,2/1,5) è doppio rispetto a quello dei consumi pubblici, dei trasferimenti, della detassazione. Come chiarito da Keynes, in larga misura si autofinanziano.

3. Il diritto dell'economia dev'essere ripensato in modo organico e ampiamente riscritto. L'ordinamento attuale appesantisce i costi del produrre e frena la produttività. Nel rispetto dell'articolo 41 della Costituzione, vanno posti al servizio delle imprese le branche del diritto societario (exit più che voice), fallimentare (stile Chapter 11 Usa), amministrativo (accentramento dei grandi progetti di spesa, nuovo codice degli appalti), del processo civile (rapidità e certezza delle sentenze).

4. È cruciale promuovere la concorrenza, soprattutto quella dinamica. Come insegna Schumpeter, la concorrenza a colpi d'innovazioni, ancor più della stessa concorrenza attraverso i prezzi, è il propellente della "distruzione creatrice", della riallocazione delle risorse, dello sviluppo capitalistico. 

5.Dev'essere avviata a correzione una distribuzione altamente sperequata dei redditi, dei patrimoni e soprattutto delle opportunità individuali. Al di là dei profili morali e d'equità, i cittadini svantaggiati sono esclusi dal contribuire al progresso del Paese, specialmente al Sud.

6. Urge una strategia per il Sud. Essa non può che imperniarsi su una rinnovata dotazione delle infrastrutture, fisiche e immateriali. Sono drammaticamente carenti nel Mezzogiorno, con pesante svantaggio per i cittadini e per le imprese meridionali. Il moltiplicatore degli investimenti pubblici (1,9) è maggiore al Sud che nella media italiana. Potenziale Florida d'Europa, il Meridione deve poter offrire tutta la gamma dei servizi necessari a turismo e soggiorno, oltre che alla vita civile: sanità, assistenza, sicurezza, trasporti, occasioni di cultura. È, questa, una straordinaria chance di avanzamento dell'intero Paese. 

7. Nell'Eurozona all'attuale rigore alla Hayek occorre sostituire il rigore alla Keynes: equilibrio di bilancio, sì, ma unito a investimenti pubblici utili, cospicui e capaci di autofinanziarsi, ammettendo la golden rule per la loro copertura con debito all'avvio. Il problema non è l'euro. L'euro è un'ottima moneta. È anche internazionalmente domandata. Ha assicurato il bene della stabilità dei prezzi, unito a bassi tassi dell'interesse. Il problema è nel governo dell'economia dell'Euroarea, nell'impostazione di fondo della sua politica economica, a cominciare da quella tedesca. Dal 1999 al 2016 il Pil della Germania è progredito solo dell'1,4% l'anno, un punto meno del potenziale, infliggendo al popolo tedesco un "mancato guadagno" per centinaia di miliardi e frenando l'intera Euroarea. La domanda interna della Germania (+1,1% l'anno) ha patito il taglio degli investimenti pubblici, con scadimento delle infrastrutture. Il sostegno al Pil è quindi provenuto dalle esportazioni nette'(+8% del Pil), a scapito della domanda globale negli altri Paesi. Questo neomercantilismo si è tradotto in un attivo nella posizione netta verso l'estero della Germania, giunto nel 2017 a sfiorare il 60% del Pil: 2.000 miliardi di dollari, come la Cina, poco meno del Giappone. L'attivo conferisce alla Germania creditrice una leva politica in stridente contrasto con l'Unione europea tra pari che vogliamo. Il punto chiave è che Keynes non è affatto lo spendaccione inflazionista considerato da chì l'ha studiato su mediocri manuali, non ha letto i suoi scritti o non li ha compresi. Keynes aborriva i disavanzi pubblici di parte corrente, lo "scavare le buche", il debito dello Stato. Predicava investimenti pubblici, col bilancio in tendenziale equilibrio. Poneva un problema di composizione della spesa: meno uscite correnti, risparmio non negativo, al limite maggiori imposte se impiegate in infrastrutture. Basteranno le sette "cose", qualora un governo le realizzasse? Sì, basteranno, se le imprese italiane, sollecitate dalla concorrenza in un contesto reso meno sfavorevole, sapranno rispondere alla sfida. La classe imprenditoriale deve pretendere che la politica crei quel contesto. Al tempo medesimo, le imprese devono ricercare il profitto, non negli aiuti esterni, bensì al loro interno: l'accumulazione di capitale, la scala efficiente del produrre, l'innovazione, il progresso tecnico. Sono, queste, loro responsabilità. Nel Novecento l'hanno fatto. Oltre che nell'età giolittiana, l'hanno fatto quando la prospettiva del Mercato comune le indusse, per sopravvivere, a investire il 30% del Pil.

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