Pierluigi Ciocca, per 40 anni in Banca d’Italia, spiega che più dello spread conta il tasso di interesse sul debito pubblico e che il nostro rapporto deficit Pil non è poi così drammatico come testimoniano i dati del Fondo monetario internazionale. Proseguendo su quanto fatto finora si potrebbe ridurre progressivamente il debito. Ma per ottenere risultati positivi occorrerebbero buoni investimenti pubblici e una seria lotta all’evasione. Ora però c’è l’incognita del nuovo governo.
Lo spread torna protagonista della scena pubblica. Martedì 29 maggio, sotto la minaccia di nuove elezioni, lo spread tra Btp e Bund con scadenza a 10 anni sfonda quota 330. I mercati temono i processi democratici?
Lo spread è meno importante del livello del tasso di interesse sul debito pubblico. Il tasso sui Btp decennali in questa vicenda politica è aumentato di circa l’1%, ossia circa 100 punti base. Su un debito pubblico di 2300 miliardi un onere maggiore pari all’1% ciò vuol dire a regime un maggior costo nella gestione del debito di 20-25 miliardi. Bisogna tener conto del fatto che la vita media del debito pubblico italiano è di circa 7-8 anni. Quindi questo incremento del tasso va spalmato nel tempo il che significherebbe un aumento di 3-4 miliardi nel primo anno. La seconda considerazione è che, nel caso italiano presente, conta più il bilancio ossia il disavanzo che non il debito. L’ indebitamento netto in rapporto al Pil è in diminuzione chiara dal 2012, quando sfiorava il 3%, ed è progressivamente sceso verso il 2%.
Ma questo non dovrebbe dare fiducia ai mercati?
Rileva, come dice anche l’articolo 81 della nostra Costituzione, il saldo strutturale al netto del ciclo: se il ciclo è positivo il disavanzo si riduce mentre se il ciclo è negativo il disavanzo aumenta. Se prendiamo i dati del Fondo monetario internazionale nel 2017 l’Italia aveva un deficit strutturale dell’1,5 per cento del Pil. Nel confronto internazionale esso è nettamente inferiore a quello Usa (4,6 per cento del Pil), a quello del Giappone, (4 per cento), a quello del Regno Unito che è (2,2 per cento). Il nostro è solo leggermente superiore a quello di Francia e Canada. Nel G7, Germania a parte, che ha un lieve surplus, il saldo strutturale italiano non appare drammatico.
Quindi?
Se gli italiani, le classi dirigenti, il governo proseguissero su questa linea di riduzione del disavanzo, trovando quei due punti di Pil, riducendo spese riducibili e facendo una seria lotta all’evasione, come sostiene Vincenzo Visco, non ci sarebbe problema. Una volta pareggiato il bilancio, ritmi di crescita anche non altissimi quali quelli degli ultimi anni, consentirebbero una progressiva riduzione del debito in rapporto al Pil. Con un Pil reale in crescita dell’1,5 per cento e un’inflazione pure dell’1,5 per cento, se oggi il debito è 130 su un Pil di 100, crescendo a 103 il Pil nominale, debito scenderebbe a 127. E così via…
Però oggi c’è un nuovo governo. Una nuova classe dirigente.
Questo è il punto. Bisogna partire dal programma del governo in carica che sostanzialmente ricalca il contratto di cui abbiamo letto nei giorni scorsi. Cosa penseranno i mercati di quanto enunciato da Conte nessun può saperlo.
Lei che idea si è fatto?
O il governo e il Parlamento intendono attuare il programma, oppure no. Dal punto di vista delle finanze pubbliche, è del tutto insostenibile. Se attuato determinerebbe un extra deficit di 100-150 miliardi. Ossia 5 o 6 punti di Pil che si aggiungerebbero al 2% di deficit attuale. Il che negherebbe completamente il tendenziale precedente. Quindi lo spread, e soprattutto il livello del tasso, risalirebbe di molto. A meno che i mercati non decidano di credere, come avvenuto finora, che il governo non attuerà o diluirà, il programma.
Non salva nulla del programma gialloverde?
Gli investimenti pubblici hanno sulla crescita economica hanno sulla crescita economica uno straordinario effetto moltiplicativo della domanda, in particolare nel Sud. Il moltiplicatore medio è stimato tra 1,2 e 1,5. Ciò significa che spendendo l’1 per cento del Pil in investimenti pubblici dopo un paio d’anni si otterrebbe una crescita dell’1,2-1,5 per cento, riducendo il disavanzo. Al Sud il moltiplicatore, secondo gli studi Svimez arriverebbe addirittura all’1,9. Buoni investimenti pubblici promuovono anche una crescita della produttività di lungo periodo, poiché migliori infrastrutture materiali e immateriali consentono alle imprese una maggiore efficienza, minori costi, più innovazioni. Gli investimenti pubblici di qualità comportano anche maggiori investimenti privati.
Quanto dobbiamo temere dalla fine del Quantitative easing, come annunciato dalla Bce?
Io credo poco. La mia è una posizione eterodossa. Mi spiego.
Prego.
Il tasso di interesse a lungo termine negli ultimi dieci anni è sceso, ed è a livelli storicamente bassissimi, ovunque nel mondo. Quindi esso in Europa dipende solo in parte dalla politica monetaria espansiva seguita dalla Banca centrale europea, una politica per altro seguita con soluzione di continuità, a differenza di quanto hanno fatto le banche centrali di Stati Uniti, Regno Unito e Giappone. In Europa abbiamo avuto una restrizione di liquidità tra l’estate del 2012 e l’estate del 2014. Poi c’è stata una ripresa di liquidità con il Qe. Ma il punto è un altro.
Quale?
Da cosa dipende il tasso di interesse. La mia ipotesi, partendo da Keynes, è che questo sia determinato dalle Banche centrali e dalle aspettative dei prezzi prevalenti. Negli ultimi anni nel mondo è accaduto che di fronte a rischi di deflazione dei prezzi, le banche centrali hanno seguito una politica espansiva della liquidità senza riuscire a sventare la deflazione. Quindi la congiunzione di deflazione e politiche monetarie espansive ha buttato giù i tassi a lunga scadenza. Conclusione: cosa faccia la Bce sull’acquisto di titoli di debito pubblico non avrà un grande peso. Il tasso è sceso più per simpatia con tendenze mondiali dei tassi che perché Mario Draghi ha comprato titoli pubblici italiani.
Ma il vero macigno resta il debito? E’ questo a mettere il piombo alle ali dell’economia italiana?
Il debito pubblico è gestibile. Il piombo all’economia italiana è stato messo da politiche economiche sbagliate a partire dalla rinuncia all’utilizzo della leva degli investimenti, e una staticità delle nostre imprese che non hanno innovato e non hanno investito.
Leave a comment