E’ più che lecito chiedersi perché in Italia i Governi, nonostante sia sostanzialmente unanime il consenso sulla necessità di incrementare gli investimenti in ricerca, siano sempre restii a dare attuazione a quanto previsto da quasi tutti i programmi politici.
Eppure è di tutta evidenza l’attuale difficile situazione della ricerca in Italia, della quale un quadro efficace è stato delineato dalla Corte dei conti nella Relazione sul rendiconto generale dello Stato[1]. Da tale analisi emerge che la spesa per R&D si pone molto al di sotto non solo dei Paesi tradizionalmente più attivi (Stati uniti e Giappone), ma anche dei Paesi emergenti (Cina) e dei principali partners europei.
Anche gli strumenti di incentivazione pubblica a disposizione delle attività di ricerca delle imprese sono discontinui, se non occasionali, e di dimensione economica largamente insufficiente: non è casuale, ad esempio, che nella Worldwide R&D incentives reference guide 2013-2014[2]siano analizzati gli incentivi per la ricerca industriale di 34 Paesi, di cui 14 dell’U.E., ma l’Italia non ci sia.
Per alcuni la ragione dell’inerzia dei Governi è dovuta meramente a calcoli elettoralistici a causa del maggiore effetto di altre misure, come ad esempio gli sgravi fiscali sulla casa o sul reddito, cui è possibile destinare le scarse risorse disponibili.
Ma non è credibile che questa possa essere l’unica motivazione.
In realtà esiste nella classe politica, o almeno in una parte di essa, una silenziosa ma profonda sfiducia nel fatto che l’utilizzo di risorse pubbliche a favore della ricerca possa davvero produrre benefici per il Paese.
Tale sfiducia ha peraltro una base logica: è ovvio che i principali effetti economici degli investimenti in ricerca sono connessi solo all’eventualità che essi attivino ulteriori investimenti produttivi successivi alla fase di ricerca. Tale eventualità dipende da tre fattori:
In assenza di strumenti normativi che diano maggiori certezze (o almeno maggiori probabilità) in merito a questi tre fattori, il rischio è che il denaro pubblico vada a finanziare attività di ricerca improduttive o di scarsa utilità o, peggio, la cui utilità sia sfruttata per investimenti produttivi in altri Paesi.
In sostanza la politica percepisce, più o meno consciamente, che il modello su cui è fondato il sistema della ricerca in Italia non funziona più.
Questo modello, che può essere definito “modello Silicon Valley”, è basato sull’ipotesi che la ricerca sia un potente attrattore di investimenti industriali e quindi lo sviluppo sia funzione della quantità e della qualità della ricerca svolta in ciascun Paese.
Ancora oggi molti ritengono che questo sia il modello da applicare, ma invece il mondo è profondamente cambiato: se per ipotesi oggi un soggetto italiano raggiungesse straordinari risultati di ricerca è molto probabile che non sarebbe l’Italia a trarne il maggior beneficio perché gli investimenti, la produzione, l’occupazione, gli utili si allocherebbero in altri Paesi dove possono essere massimizzate le convenienze degli imprenditori.
Questa è una conseguenza dei grandi cambiamenti di questo secolo, primo tra tutti l’ingresso della Cina nel WTO nel 2001, ma anche il progressivo ampliamento fino a 28 Paesi dell’Ue. Tutti fatti positivi che però vanno gestiti e non subiti.
L’Italia, e non solo l’Italia, non può più permettersi di fare ricerca per il bene mondiale: se il modello è questo non ci saranno mai sufficienti risorse per la ricerca.
Ma per essere competitivo sul mercato globale, un Paese trasformatore come il nostro - povero di materie prime – ha assoluto bisogno di poter contare su un crescente contenuto di innovazione tecnologica nei suoi prodotti: serve quindi un nuovo modello per la ricerca in Italia.
Decisivo, nella definizione del nuovo modello, è il nuovo ruolo da attribuire agli Enti pubblici di ricerca ed alle Istituzioni universitarie.
E’ proprio attraverso questi soggetti che è possibile incidere sui tre fattori determinanti per far sì che gli investimenti pubblici in ricerca attivino ulteriori investimenti produttivi.
Infatti se le attività di ricerca industriali cofinanziate con risorse pubbliche sono svolte congiuntamente con un Ente di ricerca o un’Università, è possibile:
In sostanza i programmi di ricerca devono essere l’esito di un confronto tra obiettivi di politica industriale e disponibilità delle imprese a tradurre in investimenti e occupazione gli eventuali risultati. Questa disponibilità deve essere misurata non solo con la partecipazione ai costi di ricerca, pure indispensabile, ma anche attraverso precisi impegni ad utilizzare i risultati in Italia.
Per essere più netti, questo vorrebbe dire basta ad incentivi alle imprese per ricerche fatte “in casa” e basta ai finanziamenti pubblici agli Enti di ricerca e alle Università per attività di ricerca svolte autonomamente, fatte salve le necessarie quote destinate allo sviluppo delle competenze di base e alla partecipazione ai programmi europei.
Questo nuovo approccio evidentemente contrasta con la tipica mentalità del ricercatore che vuole essere libero di scegliere su cosa fare ricerca. Non è presunzione (io scelgo meglio di altri) ma passione, curiosità, soprattutto altruismo perché la soddisfazione del ricercatore è trovare il modo per aumentare la conoscenza e il benessere di tutti. Non è casuale che la comunità scientifica internazionale sia sempre un passo avanti nella condivisione del lavoro e dei risultati rispetto alla comunità economica o politica; la scienza fa fatica a sopportare confini territoriali.
Ma non è una “deminuzio” per la ricerca essere al servizio non delle imprese ma dello sviluppo del Paese; è invece assumere il ruolo di motore dello sviluppo.
Occorre che gli Enti pubblici e le Università mettano a disposizione le loro competenze per svolgere servizi avanzati, di ricerca, di trasferimento tecnologico, di qualificazione di prodotti, a favore delle imprese. Occorre aprire le strutture e i laboratori pubblici alle imprese per aiutarle ad individuare criticità ed esigenze, offrendo loro soluzioni per migliorare i cicli produttivi, servizi qualificati di trasferimento dell’innovazione tecnologica, brevetti e prove di qualificazione e certificazione.
Beneficiarie di queste azioni di supporto dovrebbero essere, in particolare, le piccole e medie imprese (PMI), spina dorsale dell’economia italiana, attraverso programmi ed attività di intervento volti all’innovazione di processo e di prodotti.
Il nuovo modello, che potrebbe essere delineato compiutamente attraverso una legge delega ed un successivo decreto legislativo, potrebbe essere applicato in prima istanza agli enti e alle agenzie, come l’ENEA, che già attualmente svolgono attività di ricerca più vicine al mondo delle imprese e successivamente progressivamente esteso anche ad altri enti ed al mondo della ricerca universitaria.
La norma dovrebbe inoltre prevedere:
Questa è la riforma che serve.
La riforma che non serve è dettare dall’alto, per legge, le attività degli enti o semplicemente cambiare le persone pensando che ciò possa davvero cambiare la ricerca; né serve, al contrario, destinare altri fondi pubblici per finanziare un credito d’imposta per le imprese per qualunque attività di ricerca (o presunta tale) facciano.
Serve invece una riforma che, in linea con gli obiettivi della strategia europea Horizon 2020, punti a una maggiore connessione tra mondo della ricerca pubblica e sistema produttivo; una riforma che incentivi la ricerca industriale fatta insieme agli Enti pubblici e alle Università, su programmi condivisi e con impegni condivisi; una riforma che consenta di qualificare gli investimenti di ricerca per cogliere non solo i tradizionali obiettivi di costo e di qualità ma anche i requisiti energetico-ambientali che saranno in misura crescente il nuovo valore delle produzioni.
Serve in definitiva una riforma che restituisca alla politica la fiducia nel fatto che destinare risorse pubbliche alla ricerca è il miglior investimento per dare al nostro Paese una prospettiva di sviluppo.
[1] http://www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/controllo/sezioni_riunite/sezioni_riunite_in_sede_di_
controllo/2013/rendiconto_parifica_2012/volume_2/08.MIUR_2012.pdf
2http://www.ey.com/GL/en/Services/Tax/Worldwide-R-D-incentives-reference-...
3http://www.invest-in-france.org/Medias/Publications/153/France-research-tax-credit-2013.pdf ;
http://www.bmbf.de/en/1398.php
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