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Alti lai preventivi sul decreto dignità

10/07/2018
I toni con cui è stato accolto il "decreto dignità", per la parte che riguarda gli interventi sui contratti di lavoro, sono davvero apocalittici. Le associazioni degli industriali, in coro unanime, parlano di ritorno al passato, che irrigidisce regole essenziali alla flessibilità del lavoro e farà cadere occupazione e investimenti.

Pubblicato su Huffington Post.

I toni con cui è stato accolto il "decreto dignità", per la parte che riguarda gli interventi sui contratti di lavoro, sono davvero apocalittici. Le associazioni degli industriali, in coro unanime, parlano di ritorno al passato, che irrigidisce regole essenziali alla flessibilità del lavoro e farà cadere occupazione e investimenti. Temi ripresi con toni analoghi da larga parte delle opposizioni, specie del Centro-destra, e da importanti esponenti del Pd. Grida di dolore che appaiono francamente oltre misura in ragione della moderazione, oserei dire della timidezza, con cui il decreto muove alcuni passi nella giusta direzione di contrastare la diffusione, non della flessibilità, ma del precariato nel nostro paese, riprendendo, per quanto solo parzialmente, proposte che erano state avanzate nella precedente legislatura da Liberi e Uguali o dalla minoranza Pd.

La sensazione è che la levata di scudi abbia soprattutto una funzione preventiva - evitare un intervento che sia più radicale nel contrastare le storture del mercato del lavoro italiano - e un ruolo di condizionamento dell'iter parlamentare, per cercare di ottenere qualche ulteriore passo in una direzione opposta alle intenzioni dichiarate, quali la reintroduzione dei voucher, ipotizzata peraltro anche nel contratto di governo. L'intervento è circoscritto ad alcuni aspetti.

1- Si interviene sul contratto a termine reintroducendo la causale. Si tratta di una decisione importante perché, come ho sottolineato in un precedente post, l'eliminazione della causale, avvenuta in via definitiva con il Jobs Act, ha posto sullo stesso piano lavoro a tempo determinato e indeterminato, attribuendo al datore di lavoro la potestà unilaterale di decidere la durata del lavoro e, con essa, il destino del lavoratore. Peccato che il decreto richieda la causale solo per contratti di durata superiore ai dodici mesi o che diventano tali a seguito di un rinnovo o una proroga. Rinnovo che viene ulteriormente penalizzato dall'aumento dello 0,5% del contributo addizionale dell'1,4% richiesto suoi contratti a termine. Il decreto lascia quindi libere le imprese di utilizzare contratti a termine di durata non superiore ai 12 mesi (anche come effetto di più rinnovi) che non richiedono causali e poi, alla scadenza, assumere un altro lavoratore con un altro contratto a termine senza causale, aumentando il "turnover"dei lavoratori senza scoraggiare il ricorso arbitrario al contratto a termine. Lo stesso effetto si potrebbe determinare anche come conseguenza delle altre due previsioni contenute nel provvedimento: la riduzione da 5 a 4 del numero dei rinnovi ammissibili e la riduzione della durata massima, da 36 a 24 mesi, dei contratti stipulabili con la stessa persona. Il rischio è di una ulteriore frammentazione, e quindi precarizzazione, dei rapporti di lavoro, in tutti i casi in cui il lavoratore sia facilmente sostituibile.

Di fatto la patologia che viene maggiormente contrastata dal decreto è quella per cui si continua ad assumere con contratti a tempo la stessa persona, anche dopo un lungo periodo di prova, invece che assumerla a tempo indeterminato. Lo si fa ripristinando una norma, la causale dopo i primi dodici mesi, che era stata introdotta con la legge Fornero sul lavoro (legge 92 del 2012) che però, con più coerenza, l'aveva resa più efficace aumentando (a sessanta e novanta giorni rispettivamente) il periodo che deve intercorrere fra la cessazione di un contratto a tempo e il suo rinnovo, se si vuole evitarne l'automatica trasformazione in contratto a tempo indeterminato. Termini che sono poi stati drasticamente ridotti rispettivamente a 10 e 20 giorni, su cui il "decreto dignità" non interviene.

2- Il decreto estende al contratto in somministrazione tutte le regole ora previste per il contratto a termine. È un dato positivo (anche se occorre ricordare che il lavoro in somministrazione è comunque già oggi penalizzato da un costo più elevato per l'impresa), ma si dimentica un aspetto molto importante su cui Liberi e Uguali aveva presentato un emendamento all'ultima legge di bilancio: non estende al contratto in somministrazione il limite massimo del 20% previsto oggi per l'assunzione di lavoratori a tempo determinato rispetto al numero dei lavoratori a tempo indeterminato che, assieme alla causale, avrebbe l'effetto maggiore nel limitare ogni abuso nel ricorso a questo tipo di lavoro.

3- Lungi dal mettere in discussione l'impianto del Jobs Act, che ha eliminato l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e con esso ogni ipotesi di reintegra nel posto di lavoro dei lavoratori licenziati illegittimamente, per motivi disciplinari o economici, il "decreto dignità" si limita, in linea con un emendamento proposto già nella legislatura precedente dalla minoranza Pd, a prevedere un incremento dell'importo delle somme da corrispondere ai lavoratori illegittimamente licenziati, che passano da un minimo di 4 mensilità a 6 e da un massimo di 24 a 36.

Anche qui alti gemiti e clamori. Ma va ricordato che, entro questo intervallo, l'indennità resta, come oggi, pari a due mensilità per ogni anno di durata del rapporto di lavoro: la nuova norma quindi interesserà i lavoratori con più anzianità di servizio solo per quelli che, assunti dopo il 7 marzo 2015, avranno maturato almeno 12 anni di lavoro presso lo stesso datore. Insomma, se ne parla dal 2027. Potrà invece interessare da subito i lavoratori con una anzianità di servizio inferiore a due anni, che sono però gli stessi che potrebbero essere maggiormente considerati dall'atteso giudizio sulla legittimità del regime dei licenziamenti introdotto con il Jobs Act che la Corte costituzionale dovrà affrontare nell'autunno di quest'anno. Legittimità messa in dubbio dalla possibile inadeguatezza della somma prevista che, in relazione anche ai dettami di fonti sovranazionali come la Carta di Nizza e la Carta sociale, dovrebbe avere anche una funzione dissuasiva per il datore di lavoro.

Insomma non siamo di certo di fronte alla "Waterloo dei contratti" precari evocata da Di Maio. Manca infatti un quadro di riferimento coerente che dovrebbe riguardare anche il destino di altre forme di precariato già oggi molto meno tutelate dei contratti a termine, quali gli appalti endoaziendali, i tirocini extracurriculari, varie forme di lavoro autonomo occasionale. Qualche primo segnale viene lanciato. Ma gridare alla distruzione dell'economia del paese pare francamente esagerato.

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